“Solo chi non fa niente non si fa
mai male” – Carlo Lievore
(Campione e primatista del mondo nel lancio del giavellotto. Mio allenatore
ai tempi della mia carriera da giavellotista. Mentore e amico sempre presente
nel mio cuore ora che non è più su questa Terra).
AREA ATLETICA
Tra infortuni e miglioramenti, si
continua a crescere. Credo sia questa la sintesi migliore che si possa fare
adesso in relazione alla mia preparazione al rientro all’attività agonistica.
Quando per 10 anni hai un’attività
fisica dilettantistica, il fisico si adegua ad uno standard atletico “più
rilassato”. Sebbene in modo controllato, il rientro ad un’attività fisica più
importante sul piano dell’intensità e della costanza porta ad inevitabili e fastidiosi
infortuni.
Quando a novembre, a poche settimane
dall’inizio della preparazione, sono caduto e mi sono ritrovato sotto la mia
bicicletta impattando violentemente con il lato sinistro del corpo, ho avuto
l’impressione che i veri infortuni me li sarei procurati così. Spalla sinistra
e ginocchio hanno cominciato a gonfiarsi e il dolore non mi permetteva di
pedalare o semplicemente impugnare il manubrio.
La prima cosa che un atleta non
vuole sentirsi dire è di “restare a riposo”. L’attività fisica ne richiede
altra per avere giovamento dal punto di vista atletico e psicologico.
Nel mio caso poi, cominciavo a
vedere i primi margini di miglioramento dopo le prime uscite in bicicletta. La sella cominciava a fare
meno male e i chilometri iniziavano a scorrere sotto la mia MTB in modo un po’ meno pesante.
Nulla da fare. Tutto da buttare. Si
sta fermi e si ricomincia tutto da capo.
La mia prima parte di carriera mi ha
insegnato che non bisogna mai andare contro il parere medico. Soprattutto
quelli sportivi. Rispetto a “quelli normali”, loro sono già abituati a metterti
in condizione di correre nel minor tempo possibile. Inutile forzare,
soprattutto a 42 anni.
Nelle lunghe giornate in attesa di
tornare in sella, mentre anche la mia bici - la mitica “Ipazia” - era in officina a farsi dare un’occhiata dopo il volo, ho
pensato a quella caduta come ad un segno. Una sorta di benvenuto nel mondo del
ciclismo che onestamente non ho gradito.
L’atleta è anche un po’
superstizioso, ma la mia vicinanza al mondo scientifico mi ha aiutato a
razionalizzare. Tuttavia, mi sono reso conto che cadere e farsi male è davvero
facile. In quel momento pensavo che la maggior parte dei miei infortuni
arrivassero dalle cadute. Mi sbagliavo.
Gli infortuni successivi sarebbero
arrivati dalla distonia tra la mente e il corpo. Il corpo manda segnali al
cervello per chiedergli di “rallentare” la preparazione. Il corpo infatti ha
tempi più lenti rispetto al cervello. Un fattore del tutto normale.
Il neofita che prende in mano una chitarra
vorrebbe essere Jimi Hendrix, ma
deve abituare le dita facendo interminabili scale pentatoniche sulla tastiera.
Quando sali in sella la prima volta
vuoi solo andare veloce, andare subito in gara. Fino a quando il sedere non
comincia a darti un dolore enorme, ti trovi ad avanzare a fatica a bocca spalancata per respirare dopo pochi
chilometri e le gambe bruciano come se qualcuno te le bruciasse con un cannello.
Se poi hai una carriera atletica
vincente alle spalle, le performance le pretendi. Ti spettano di diritto. In
fondo sei stato un campione.
Poi ti ricordi che dietro i sorrisi
sul podio, le interviste e i servizi fotografici per gli sponsor c’erano tonnellate di metallo sollevate e
migliaia di lanci di allenamento. Allora capisci che è meglio continuare a
pedalare. Possibilmente in silenzio, perché il fiato serve. Eccome.
Quello su cui sto lavorando in
questi mesi è l’allineamento tra mente e corpo. Niente di filosofico. Tutto di
razionale.
Lavoro sull’efficienza della
pedalata, la resistenza e sul rapporto peso potenza in modo da migliorare
atleticamente e sulla performance. Ho due percorsi di allenamento, con
riferimenti cronometrici. Potrà sembrare noioso dover pedalare sempre negli
stessi luoghi, ma i benefici sono enormi, perchè oltre alla necessità di avere
dati non variabili, in termini psicologici hai l’esatta percezione del
miglioramento. Arrivi in un determinato punto con sensazioni migliori rispetto
ai giri precedenti. Affronti la salita in modo più efficiente e con un rapporto
più duro rispetto a 5 giorni prima. Assumi gli integratori negli stessi punti.
Il ciclista fa questo: pedala e
acquisisce dati.
Poi avviene una differenza che
suddivide il ciclista in due categorie. C’è quello che nutre il suo ego e
condivide su Instagram la schermata
di Strava, e quello che invece manda
i dati al proprio staff e ai consulenti per capire dove si può migliorare.
Io appartengo alla seconda
categoria. Anche perché non capisco come possa interessare il mio giro in bici
agli altri.
Nonostante questo gli infortuni
arrivano, insieme alla necessità di fermarsi. Succede perché ti spingi sempre
al limite di quel delicato rapporto tra mente e corpo. Tutto al solo scopo di
abituarsi il più in fretta possibile al miglioramento.
Il mio tallone d’Achille a quanto
pare non è il tallone, ma il ginocchio sinistro. Ha una certa propensione
all’infiammazione dopo una quarantina di chilometri fatti con un certo brio.
Evito l’imprecazione, ma fa rabbia e soprattutto fa perdere tempo prezioso.
Una delle ragioni per cui mi fa male
il ginocchio sinistro è che provengo da discipline asimmetriche. Prima il giavellotto
e poi il golf. La gamba sinistra per me “è quella forte”, e a quanto pare la
utilizzo più della destra quando pedalo. Questo affatica articolazione, tendini, legamenti e la muscolatura.
Dovrò lavorare anche su questo,
ovviamente facendomi seguire da professionisti per limitare gli infortuni e
velocizzare il processo. Questo anche a beneficio della continuità negli
allenamenti, che in questo momento sono particolarmente necessari.
AREA PSICOLOGICA
Come abbiamo visto, questa sezione
ha un forte legame con quella precedente. Dal punto di vista psicologico sono
comunque molto soddisfatto.
La mia situazione atletica e le
performance migliorano di continuo. Questo lo vedo in tempo reale sul percorso,
lo sento attraverso le sensazioni che migliorano quasi ad ogni allenamento e i
dati che analizzo mi danno morale e indicazioni sul fatto che forse sono ancora
sano di mente ad aver accettato questa sfida.
In più l’attività fisica aerobica mi
regala un profondo senso di benessere e mi abitua fisicamente ad avere più
resistenza. A 40 anni si sente anche quella necessità. Le ricadute psicologiche
su questo sono enormi.
Ora capisco tutti quei conoscenti
che intorno ai 40 hanno deciso di buttarsi nel podismo come degli invasati. Si
scherza…
Quello che però denoto dal punto di
vista psicologico, e che ritengo vada nella direzione giusta, è l’approccio nei
confronti della professionalità altrui e degli infortuni.
Sto affinando la mia capacità di
autodisciplina. Sto imparando ad attendere con serenità la fine degli
infortuni, ad analizzare con calma le situazioni in allenamento e a dare
fiducia alle persone che mi seguono in questo progetto. Li ascolto e seguo alla
lettera quello che mi dicono. Senza forzare.
Questo per me è un enorme risultato.
Ho sempre avuto un approccio ipercompetitivo e aggressivo. Tutto rabbia,
tecnica e muscoli. Ora mi ascolto di più. Valuto. Chiedo. Mi informo (non su
wikipedia ma rivolgendomi a professionisti veri) e costruisco ogni giorno il
mio pacchetto competitivo. Un tassello dopo l’altro, metto sul percorso il
meglio che posso dare in quel momento in tutti i settori tecnici e umani che
compongono la performance.
Lo chiamo “pacchetto competitivo
EM314”.
La disciplina e la maturità forgiano
la mia serenità e fanno risparmiare energie mentali che butto in modo
aggressivo sul percorso nel giro successivo. Molto del mio continuo
miglioramento è frutto di questo approccio analitico e riflessivo. Non è un
caso che i samurai, grazie alla loro disciplina, siano state le macchine umane
da guerra più evolute per secoli.
RAPPORTI CON I MEDIA
I giornali continuano a parlare di EM314 e la visibilità verso questo
progetto cresce. Ormai abbiamo abbondantemente superato i 100 articoli di
stampa in rassegna con più di 40 testate (generaliste e di settore) che ci
hanno dedicato attenzione. Ritengo che i numeri siano importanti e di assoluto
valore.
Ricordo ancora il lancio del
comunicato stampa che annunciava il mio ritorno. Ero molto emozionato. Sembra
sia passata una vita, eppure è successo tutto tre mesi e mezzo fa. 100 articoli
in così poco tempo è un risultato notevole.
Sono grato nei confronti di coloro
che amplificano l’importanza di EM314 attraverso gli organi di stampa. Sento la responabilità di
rappresentare positivamente il progetto e i partner ogni singolo giorno.
La mia partecipazione, anche come
“Global Ambassador”, per la campagna globale sull’inquinamento luminoso MISSION DARK SKY, ritengo sia un altro
segno tangibile dell’importanza dello sport
nella divulgazione di messaggi positivi verso il pubblico.
CONCLUSIONI – SICUREZZA STRADALE
Prima di concludere questo articolo,
che per chi è interessato alla ripresa di un’attività fisica vuole solo essere
un fattore di condivisione delle mie esperienze, desidero fare qualche
riflessione su una questione che mi sta molto a cuore, perché riguarda chiunque
occupi dello spazio sulla strada. Mi riferisco alla sicurezza stradale.
Mentre scrivo queste righe, l’Italia
è quasi del tutto paralizzata dalle ordinanze legate al fenomeno del Coronavirus. Farà riflettere pensare
che sulle strade della civilissima Italia
muore un ciclista in media ogni 30 ore.
Il tasso di mortalità è più alto tra
i ciclisti investiti che negli ospedali per il virus di cui sopra. Rimane
difficile comprendere come non vengano presi, dal punto di vista legislativo, provvedimenti
per un fenomeno che visto dal punto di vista dei numeri – e dei familiari delle
vittime – può solo essere chiamato in un modo: STRAGE.
Da uomo di comunicazione e
divulgatore scientifico, nelle ultime ore ho dovuto apprendere, con un certo
sconcerto, che le stragi non hanno lo stesso appeal agli occhi dei media e del governo delle ondate influenzali.
Tra piste ciclabili trasformate in
luoghi di passeggio per cani lasciati liberi o tenuti al guinzaglio con
l’occupazione trasversale e totale della sede stradale, e automobilisti
impegnati in comunicazioni via WhatsApp con l’amante, ho avuto modo di
verificare personalmente la pericolosità del fenomeno.
Per buona parte di questo articolo
ho parlato di infortuni e delle ricadute fisiche e psicologiche di questi.
La verità però, è che ogni volta che
mi preparo per andare ad allenarmi, le preoccupazioni per gli infortuni
scompaiono di fronte alla paura di non tornare.
Si, non ho difficoltà a dirlo: HO PAURA.
So che NON è una cosa “che può succedere solo agli altri” e che
pedalare a destra non basta quando si ha la sfortuna di stare davanti al
veicolo di un automobilista distratto o che percepisce di essere il centro
dell’universo e di avere fretta per andare a comprare il giornale.
Ma più di tutto fa paura l’idea di
morire solo. Sull’asfalto. Abbandonato da quelle istituzioni che fermano un
Paese per un virus con numeri RIDICOLI rispetto ad una strage che si ripete
quotidianamente. Lontano dalle prime pagine e dai titoli allarmistici.
Nelle scorse ore Letizia Paternoster, investita qualche
mese fa, ha vinto una meravigliosa medaglia d’argento ai campionati mondiali su
pista. Ora tutti a festeggiare (io per primo), anche nelle istituzioni sportive
e politiche. Ma quella medaglia avrebbe potuto non esserci più!
Intanto grazie Letizia per questa
ennesima soddisfazione. Felice che tu ci sia ancora.
Come atleta aderisco alla Campagna “Io rispetto il ciclista”, che ho
conosciuto grazie alla mia instancabile amica Paola Gianotti. Tuttavia sto valutando di dare il mio contributo in
modo più concreto per arrivare ad una soluzione legislativa che possa far
aumentare le probabilità di un mio ritorno a casa.
Perché non si scriva un giorno, di
me e di nessun altro, che “voleva solo
fare un giro in bici”. Perché è giusto comprendere che, parafrasando una
canzone di Umberto Tozzi, in questo caso, come in molti altri, “Gli altri siamo
noi”.
Emmanuele Macaluso – EM314